Le "femcel" e la revisione opportunistica degli stereotipi maschilisti
Celebrare la sofferenza femminile non come una condizione da superare, ma come un linguaggio attraverso cui affermarsi, trasformando il malessere in una forma di autodeterminazione? È quello che succede nell’ambito del “femcel”, un fenomeno sociale poco conosciuto ma sempre più diffuso tra il genere femminile contemporaneo, che punta a trasformare una debolezza ereditata dal passato in uno strumento di forza.
La condizione femminile degli anni 50 al giorno d’oggi
Le “famcel” (dalla crasi tra "female" e "involuntary
celibate") sono le donne che propongono una visione delle relazioni tra i
sessi che sembra uscita da un manuale degli anni '50, ma che punta a ribaltare
le dinamiche del patriarcato, smettendo di subirlo per imparare a usarlo a
proprio vantaggio.
Un nuovo fenomeno sociale
Le “femcel” sono la declinazione femminile degli “incel”, ovvero gli
“uomini che odiano le donne perché loro non li amano”. La storia di questa
asintonia relazionale è stata raccontata per la prima volta negli anni ’90
dalla curatrice del blog Alana's Involuntary Celibacy Project, che
utilizzò il web per raccontare le sue disavventure amorose e coniò per la prima
volta il termine “incel”, per indicare un fenomeno sociale che, da nicchia del
web, nel tempo si è trasformato in un movimento maschilista violento, guardato
con sospetto dalle autorità antiterrorismo. Le femcel, invece, hanno preso una
strada diversa: anziché ribellarsi al sistema, hanno deciso di sfruttarlo.
Una nuova declinazione della socialità digitale
Il movimento delle “femcel” si aggiunge al variegato mondo della femosfera,
popolato da figure che vanno dalle "strateghe degli appuntamenti"
alle "dark female", ognuna con il proprio manifesto su come
sopravvivere in un mondo percepito come maschilista e ostile. Da un lato, ci
sono quelle che incoraggiano le donne a cercare dei partner in grado di
sostenerle finanziariamente, ribaltando la prospettiva di chi lotta contro le
diseguaglianze incoraggiando piuttosto a utilizzarle a vantaggio del genere
femminile. Dall’altro ci sono quelle che suggeriscono alcune strategie per
mantenere il controllo sul partner, tra cui -per esempio- rifiutare un invito
per un appuntamento all’ultimo minuto anche quando si è libere e interessate,
in modo da non apparire troppo disponibili. Altre ancora consigliano di evitare
di mostrare interesse per hobby o passioni maschili, o di fingere di avere una
vita sociale più attiva di quanto non sia in realtà, pur di non sembrare troppo
accessibili. Viceversa ci sono anche quante rivendicando il loro non essere
come le altre (le belle, le pick-me-girl, ecc) e lamentano la mancanza di
interazioni significative con gli uomini.
Il romanticismo 4.0
Le “femcel” attingono a un immaginario culturale radicato nelle narrazioni
stereotipate che esaltano il disagio femminile e lo trasformano in estetica. Si
rifanno a protagoniste tormentate, malinconiche e disilluse come quelle dei
romanzi dell’Ottocento-Novecento e romanticizzano comportamenti tossici e
manipolativi, trasformando la vittimizzazione in una forma di potere distorto.
Un atteggiamento che celebra la sofferenza non come una condizione da superare,
ma come un linguaggio attraverso cui affermare se stesse, trasformando il
malessere in una forma di autodeterminazione.
I social sono terreno fertile per l’estetizzazione del malessere
Questa estetizzazione del malessere trova ampia espressione sui social, dove il linguaggio della femcel si fonde con riferimenti culturali pop, dando vita a contenuti eterogenei che mescolano rabbia, tristezza, malinconia. Su TikTok, l’hashtag #femcel raccoglie oltre 43mila post e in generale sui social il disagio viene trasformato in una sorta di eredità generazionale distorcendo il messaggio di alcune eroine del passato che avevano utilizzato le armi a loro disposizione (per esempio la scrittura) per denunciare le costrizioni del patriarcato. Oggi le femcel sembrano piuttosto puntare sulla manipolazione e sull’autocommiserazione, e glorificano la passività e la tossicità relazionale, dando vita a un fenomeno antropologicamente interessante da studiare ma socialmente pericoloso perché rischia di creare una stereotipizzazione del disagio che rischia di trasformarlo in una gabbia o in una nuova forma di “normalità” per le donne.
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